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28/06/2021 IN NOME DELL’ANTIMAFIA - dal 10 luglio

È IN USCITA IL TERZO VOLUME DELLA COLLANA “CRONISTI SCALZI” CHE LA IOD EDIZIONI HA DEDICATO A GIANCARLO SIANI. 
SI TRATTA DEL LIBRO “ IN NOME DELL’ANTIMAFIA” DI SALVO VITALE, CON PREFAZIONE DI PIETRO ORSATTI

SALVO VITALE
IN NOME DELL’ANTIMAFIA
Cronache da Telejato - Misure di Prevenzione e gestione beni confiscati

Dal 10 luglio nelle migliori librerie. IOD EDIZIONI

"Considero l’antimafia espressione di un impegno civile non facile, soprattutto in zone in cui la mafia si taglia col coltello e che sembrano senza speranza. La mia storia personale, che ha avuto il momento più bello negli anni della collaborazione con Peppino Impastato e il momento più tragico con il suo assassinio, lo testimonia."

(Salvo Vitale)

IL CORAGGIO DI FARE UNA INCHIESTA.
La collana Cronisti scalzi, dedicata alla memoria di Giancarlo Siani, pubblica con immenso onore una straordinaria inchiesta di un giornalista di strada nella lotta alla mafia e alle ingiustizie sociali, Salvo Vitale
In nome dell’antimafia. -Cronache da Telejato- Misure di Prevenzione e gestione beni confiscati.
Cronisti scalzi intende essere una sfida aperta alle mafie e alle ingiustizie di questo mondo. Ogni nostra pubblicazione è un atto di libertà in memoria di chi fu censurato a morte per il suo coraggio di scrivere e parlare in libertà, come fu per Giancarlo Siani e Peppino Impastato e per tutti i giornalisti uccisi in Italia e nel mondo.

Dalla prefazione di Pietro Orsatti
Questo è un libro difficile, sia sul piano della lettura che su quello politico. Perché non fa sconti a nessuno. Perché chi l’ha scritto ha ben chiara la storia – anche sanguinosa – che portò all’approvazione della legge Rognoni-La Torre. Perché quella rivoluzione, toccare i patrimoni della mafia attraverso sequestri e confische, non si areni nell’incuria e negli affarismi. Perché non basta fare le domande giuste, ma è indispensabile avere ben chiaro da che parte bisogna schierarsi, quale sia la posta in gioco. In molti si scaglieranno – l’hanno già fatto – contro Salvo e il suo lavoro.

Figuriamoci se Salvo si sarebbe tirato indietro dallo sfoderare la polemica e la penna davanti a una macroscopica mala gestione dei beni sequestrati “alla mafia” come quella che si è costruita in decenni di amministrazione opaca. Uno che non ha tirato indietro la gamba quando c’era da tirare fuori verità scomode su quello “che si era stati”, nel suo libro Cento passi ancora, facendo incazzare mezza antimafia storica, vecchi compagni di lotte e di vita, solo per aver dato umanità, fiato e sorriso a una storia d’impegno e di liberazione che avevano rimosso.

Certo, l’antimafia “ufficiale”, pezzi della magistratura e della politica “progressista” non si aspettavano una campagna d’informazione così determinata e documentata. Non pensavano che “l’omino della Bialetti” e il vecchio professore in pensione potessero arrivare a far esplodere un caso nazionale, toccando l’impensabile, provocando un terremoto di dimensioni che hanno portato fino all’esplosione del “caso Saguto”. Chi se lo sarebbe aspettato che Pino e Salvo, molto prima dell’intervento della procura di Caltanissetta, facessero saltare il coperchio del pentolone dell’affare beni sequestrati?

Molta antimafia ufficiale mal digerisce lavare i panni sporchi in pubblico, preferisce contenere e mantenersi sulla difensiva anche davanti all’evidenza di quello che emerge dal lavoro di inchiesta sull’affare dei beni sequestrati, ritenendo controproducente – e pericoloso – far emergere malaffare e contraddizioni, paradossi e cattiva amministrazione. Meglio risolvere tutto lontani dal proscenio pubblico fra “iniziati”.
Difendere acriticamente un meccanismo che si è rivelato monco e influenzabile dagli affarismi solo per garantirsi ruolo e posizione politica è una azione suicida. Crea divisioni, sconcerto nell’opinione pubblica e vuoti di iniziativa e di potere – quando parliamo degli aspetti istituzionali dell’antimafia – che vanno solo a ridare fiato e consenso alla mafia.
Il vizio di farsi domande, che vizio non è, è forse l’unico anticorpo che ci consenta di difenderci da un universo come quello mafioso che ha sempre dimostrato immensa capacità e velocità di trasformazione, mimetizzazione e adattamento. Il vizio di farsi domande è la cura all’arbitrio del potere.

L'AUTORE
Salvo Vitale
Scrittore, poeta, docente e soprattutto amico di Peppino Impastato, col il quale ha condiviso numerose battaglie sociali e politiche, e una grande passione per il giornalismo in terra di mafia.
Nato a Cinisi nel 1943, vive a Partinico, da dove collabora con le testate giornalistiche "Antimafia Duemila", "I Siciliani giovani" e con altri giornali, riviste e blog. Si occupa di ricerche storiche, antropologiche e sociologiche, di educazione alla legalità ed educazione antimafia nelle scuole. Ha curato, per 10 anni, il sito www.peppinoimpastato.com, cura il suo personale sito www.ilcompagno.it ed è redattore capo dell'emittente televisiva Telejato, dove segue in particolare le vicende dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. È stato fondatore e presidente dell'Associazione Culturale Peppino Impastato di Cinisi

Salvo ai funerali di Peppino

Nota introduttiva al libro

SALVO VITALE

Questa inchiesta è cominciata nel 2013, allorché alcuni familiari di persone sottoposte a indagine per sospette collusioni mafiose, che avevano scelto di collaborare con i magistrati, dopo avere subito danni ai loro impianti per avere denunciato i loro estorsori, si sono trovati nella morsa dell’ufficio Misure di Prevenzione, che aveva disposto il sequestro dei loro beni, affidandoli nelle mani di amministratori giudiziari ai quali ben poco importava delle sorti delle aziende e delle persone e che vi lavoravano, e ne causavano lo sfascio o una drastica diminuzione del volume degli affari. Alcuni, che avevano sperato di continuare a lavorare offrendo la propria collaborazione, si erano invece ritrovati privi dalla loro attività, abbandonati dalla macchina amministrativa che avrebbe dovuto tutelarli e, non avendo più nulla da perdere, hanno voluto rendere note le loro vicende, raccontandole alla redazione della piccola emittente di Partinico, Telejato, affinché si portasse a conoscenza il modo di operare di alcuni settori della giustizia italiana. Da allora è diventato un continuo viavai di gente, vittime delle più incredibili vicende, provenienti da ogni parte della Sicilia, alle quali era rimasta una sola possibilità, dopo aver perso tutto: comunicare agli altri le circostanze e, dal loro punto di vista, le ingiustizie di cui erano rimaste vittime. Una chiara rottura di quel muro del silenzio e dell’omertà che caratterizza gli ambienti vicini al sodalizio mafioso.
Difficile in questo contesto individuare e saper discernere gli elementi che avevano indotto i magistrati ad agire nei loro confronti, ovvero quanti fossero vittime e quanti invece fossero autentici mafiosi o loro amici che avevano accumulato ricchezze in modo disonesto e adesso si ritrovavano, “con il culo per terra”. Abbiamo chiesto loro, per prima cosa, di mostrarci il decreto di sequestro, dove si indicava in qualche modo il peccato originale da cui era partita l’indagine, quasi sempre da parte della Dia, ovvero l’iniziale collusione mafiosa, i riscontri dei “pentiti”, le frequenze, le intercettazioni, la eventuale differenza tra gli introiti dichiarati e la ricchezza accumulata. Molti erano in grado di dimostrare la loro estraneità, ma non avevano potuto farlo perché il tribunale di Prevenzione rinviava puntualmente le udienze; alcuni non avevano mai subito un procedimento penale; gli altri, quasi tutti, erano stati assolti nei tre gradi di giudizio, ma si trovavano comunque sottoposti a sequestro e non sapevano più cosa fare e a chi rivolgersi per dimostrare le loro ragioni.
Ci ha colpito questo bisogno di parlare, di denunciare, di ribellarsi, di non volere più subire e questa residua speranza di avere giustizia. Poiché non sono solito vendere illusioni, ho fatto quello che mi chiedevano di fare e che faccio da più di cinquant’anni, senza tesserino, cioè il giornalista di strada, ovvero ho scritto quello che mi raccontavano, perfettamente cosciente di non potere esprimere, se non in minima parte, tante storie di dolore, di prepotenze, di arroganze, di carriere e famiglie distrutte, di aziende fallite, di avvocati disonesti, di ragazzi cui era stato sequestrato persino il motorino o il cellulare e di proprietari di case costretti a pagare l’affitto della loro abitazione all’amministratore giudiziario, sino al momento dello sfratto, per non parlare di gente disponibile a pagare l’affitto delle proprie case, rimaste poi chiuse e abbandonate ai saccheggi,
Abbiamo picchiato duro per oltre quattro anni, sfidando apertamente i responsabili a denunciarci e a difendersi dall’accusa di abuso d’atti d’ufficio, di corruzione, di furto, d’incapacità gestionale. Mai nessuna denuncia, sino a un certo momento, probabilmente per paura che non si scoperchiasse troppo la pentola. Stranamente le denunce sono cominciate a fioccare, nei confronti di chi scrive e di Pino Maniaci, subito dopo che al tribunale di Palermo si è scatenato un terremoto, del quale, ancora oggi si avverte qualche scossa di assestamento. Difficile sottrarsi al sospetto che sotto ci sia stata e ci sia ancora una qualche strategia di rivalsa, da parte di coloro cui è stato rotto il giocattolo. Non si può sollevare il velo senza pretendere che nessuno guardi quello che ci sta sotto e, quando si ha il potere di farlo, senza rinunciare al proposito di infierire con chi ha avuto il coraggio di fare quel gesto. L’ufficio Misure di Prevenzione era considerato una sorta di fiore all’occhiello e il suo presidente, Silvana Saguto, uno dei personaggi più impegnati nel mondo dell’antimafia. In realtà non era tutto oro.
Non abbiamo fatto, come i soliti ipocriti antimafiosi di facciata ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, nella drammatica situazione di povertà in cui si trova la Sicilia.
Si dirà che le Misure di Prevenzione e la carta bianca ai giudici nella lotta contro la mafia sono “eccezionalità necessarie”, se si vuole combattere l’accumulazione mafiosa della ricchezza, ma le eccezioni, per definizione, sono rare alterazioni della normalità, che si mettono in atto in condizioni d’emergenza e che non possono diventare croniche.
Ci sarà, e c’è già stato, qualcuno che, con la puzzetta al naso, ha sentenziato che con questo lavoro si delegittima il sistema, ma, se il sistema è questo, è bene delegittimarlo, o almeno metterne in discussione le parti malate e cercare la cura per renderlo più efficiente.
Si dirà che, esibendo questi numerosi casi di “fallimento” dello Stato che non riesce ad assicurare a tutti una giustizia “giusta” e il diritto a conservare il lavoro, rispetto a chi invece lo perde proprio a causa dell’intervento dello Stato, si mette in discussione la colonna portante delle istituzioni, la magistratura: troppo facile rispondere che una denuncia ha senso se serve, come in questo caso, a rilegittimare un’istituzione che non funziona bene e che la delegittimazione è causata dall’azione deviata di chi dovrebbe rappresentare legittimamente l’istituzione o da chi usa in modo distorto una legge già distorta.
Certamente si riscontreranno errori e omissioni, nelle date, nei nomi, nel racconto delle vicende, motivati spesso dalla difficoltà di accedere agli atti giudiziari e o di avere un contraddittorio rispetto a quello che è stato riferito o raccontato. Alcuni sviluppi giudiziari non sono stati aggiornati ed è possibile che, di alcune notizie si sia omesso di citare la fonte, o che altre notizie possano essere considerate incomplete, sbagliate, se non diffamatorie. In ogni caso c’è la disponibilità a eventuali rettifiche e integrazioni, senza il ricorso a rivalse giudiziarie ed economiche, secondo un vizietto invalso da qualche tempo.
Ultima considerazione: questo libro nasce già condannato. Nel bollettino di Libera, il 17 febbraio 2016, Lorenzo Frigerio, responsabile di Libera in Lombardia, verso il quale nutro stima, sulla base di informazioni e considerazioni che egli stesso definisce di parte, scrive: «Spiace pensare che una temibile “cupio dissolvi” stia ottenebrando il giudizio in alcuni e serva solo a criticare, perdendo di vista le positività oppure – concedeteci il sospetto – a promuovere libri dedicati all’antimafia che non funziona. Non vorremmo che così facendo, si finisca per lanciare il messaggio che l’antimafia vera non esiste, perché è tutto solo business».
Non sono schierato “contro l’antimafia”, come Giacomo Di Girolamo, che ne ha scritto un libro con questo titolo provocatorio, né considero quelli che fanno confessioni antimafia eclatanti dei “tragediatori”, come li chiama, nel titolo di un altro libro, Francesco Forgione. Considero l’antimafia espressione di un impegno civile non facile, soprattutto in zone in cui la mafia si taglia col coltello e che sembrano senza speranza. La mia storia personale, che ha avuto il momento più bello negli anni della collaborazione con Peppino Impastato e il momento più tragico con il suo assassinio, lo testimonia.
Per questi motivi non voglio far parte del coro di coloro che oggi abbaiano contro l’antimafia cercando le spiegazioni più balorde per dirne male. È diventato una moda trovare qualcosa e qualcuno da additare a esempio del fallimento di un ideale, di un certo tipo di lotta che ha visto scendere in campo studenti, docenti, imprenditori, scrittori, artisti, sacerdoti, uomini politici, magistrati, gente comune.
Frigerio parla di “alcuni”, ma, finisce con lo scambiare la parte per il tutto ed estendere il giudizio sull’operato di una parte come il giudizio sul tutto, il giudizio su determinati settori verniciati di antimafia come un giudizio su tutta l’antimafia. Il figlio di Pio La Torre ha dovuto impararlo a sue spese, lasciando Libera, i cui meriti sono innegabili, ma in altri casi sono stati istruiti processi di santificazione o di demonizzazione, di osanna o di anatemi, le cui energie disperse avrebbero meritato di essere dirottate verso altri obiettivi.
Ancora due parole: la legge di cui si parla, le sue conseguenze, spesso disumane, la mancanza di scrupoli, da parte di chi l’ha applicata in modo indiscriminato, e di umanità, da parte di chi ne ha eseguito gli ordini, pone alcune gravi domande su quanti spazi di democrazia oggi siano presenti in Italia e quanti siano ancora da conquistare. Certe eredità del fascismo non sono mai morte. Non è vero che la legge è uguale per tutti: sarei tentato di dire, in siciliano “cu avi dinari e amicizia teni ’nculu la giustizia” (chi ha denari e amicizia tiene in culo la giustizia). Sarei tentato di dire, contraddicendo lo stesso assunto giuridico di base, che “la legge è uguale per tutti, eccetto che per i mafiosi”, poiché costoro non rispettano la legge e pretendono di usufruire delle sue garanzie. Ma attenzione, “eccetto che per i mafiosi” comprovati e giudicati tali, ai quali vanno confiscate anche le mutande, non per coloro che sono sospettati di mafia e poi, dopo essere stati spogliati di tutto, vengono prosciolti da ogni accusa. Una profonda revisione, se non la cancellazione della legge sulle Misure di Prevenzione fondate sul sospetto sarebbe una conquista di civiltà per distanziarci dalla barbarie e dal medioevo della giustizia .

SINOSSI
Funzioni e disfunzioni, meriti e limiti della legge sulle misure di prevenzione in una dettagliata analisi sulle modalità dei sequestri e sull’utilizzo dei beni sequestrati. L’autore ripercorre, attraverso le sue inchieste condotte dall’emittente privata Telejato, in cui è caporedattore, le vicende di imprenditori ai quali sono stati sequestrati i beni e riconsegnate poi le briciole, per responsabilità degli amministratori giudiziari. In primo piano le vicende della gestione dell’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, presieduto dalla Saguto e quelle di Pino Maniaci, responsabile della piccola emittente che per prima ha denunciato lo scandalo. Sullo sfondo vent’anni di storia della mafia siciliana con una rassegna dei personaggi che l’hanno rappresentata, attraverso i loro interessi economici, particolarmente in quella zona grigia nella quale il confine tra mafia e legalità spesso è affidato al giudizio non sempre omogeneo di differenti settori della magistratura. E’ lo stesso confine che spesso caratterizza la vera antimafia rispetto all’uso distorto che ne viene fatto da chi agisce in suo nome.

La sceneggiatura del film I cento passi, del 2000 diretto da Marco Tullio Giordana dedicato alla vita e all'omicidio di Peppino Impastato, dove Salvo Vitale è interpretato dall'attore Claudio Gioè, è ispirata al libro Nel cuore dei coralli, una biografia di Peppino Impastato e delle vicende legate alla sua figura, scritto da Vitale.

IL MONOLOGO DI SALVO VITALE A RADIO AUT
All'alba del 9 maggio del 1978, dopo aver appreso della morte di Peppino, Salvo Vitale da Radio Aut lanciò il suo monologo che ancora oggi commuove e condanna. A 41 anni dall’omicidio di Peppino Impastato questo grido di dolore lanciato dalla sua radio libera è ancora attuale e potente come allora.

"Stamattina Peppino avrebbe dovuto tenere il comizio conclusivo della sua campagna elettorale.
Non ci sarà nessun comizio e non ci saranno più altre trasmissioni.
Peppino non c'è più, è morto, si è suicidato.
No, non sorprendetevi perché le cose sono andate veramente così.
Lo dicono i carabinieri, il magistrato lo dice.
Dice che hanno trovato un biglietto: "voglio abbandonare la politica e la vita".
Ecco questa sarebbe la prova del suicidio, la dimostrazione.
E lui per abbandonare la politica e la vita che cosa fa: se ne va alla ferrovia, comincia a sbattersi la testa contro un sasso, comincia a sporcare di sangue tutto intorno, poi si fascia il corpo con il tritolo e salta in aria sui binari.
Suicidio.
Come l'anarchico Pinelli che vola dalle finestre della questura di Milano oppure come l'editore Feltrinelli che salta in aria sui tralicci dell'Enel.
Tutti suicidi.
Questo leggerete domani sui giornali, questo vedrete alla televisione.
Anzi non leggerete proprio niente, perché domani stampa e televisione si occuperanno di un caso molto importante. Il ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle brigate rosse.
E questa è una notizia che naturalmente fa impallidire tutto il resto.
Per cui chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia, ma chi se ne fotte di questo Peppino Impastato. Adesso fate una cosa: spegnetela questa radio, voltatevi pure dall'altra parte, tanto si sa come vanno a finire queste cose, si sa che niente può cambiare.
Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino.
Domani ci saranno i funerali. Voi non andateci, lasciamolo solo.
E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo.
Ma no perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace.
Noi siamo la mafia.
E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddu miscato cu niente.

fonte: Comunicato Stampa Iod Edizioni
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