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12/02/2019 I RITRATTI DI IDRA - di Carlo Improta (Editrice Domenicana Italiana)
  • IN BREVE
  • POSTFAZIONE di Luciana Mascia Vicepresidente UCAI-Napoli
  • QUALCHE PAGINA

IN BREVE - Un pittore, un gallerista, una prostituta sono i protagonisti del racconto; ciascuno con i propri problemi esistenziali alle prese con l’esistenza propria e collettiva, in una Napoli di inizio secondo millennio. Le loro vite si intersecano e il racconto della loro interazione coinvolge il lettore, il quale è messo di fronte ai travagli dell’artista e davanti alla situazione di violenza nella quale è costretta la donna straniera, figura di ogni altra violenza perpetrata nel mondo. Con toni e colori, luci e contrasti, esteriori ed interiori, l’autore sapientemente cattura il lettore e lo conduce all’epilogo, attraverso sofferenze e bellezza.

Editore: Editrice Domenicana Italiana - EAN: 9788894876406 - Pagine: 96 - € 9,00


POSTFAZIONE
di Luciana Mascia
Vicepresidente UCAI-Napoli

«Sai, non è autobiografico!», mi ha confidato Carlo, rimettendo nelle mie mani e ad una mia valutazione il suo racconto.

Forse si riferiva alla scabrosità dell’incontro di Michele, protagonista del racconto, con una prostituta e con dei criminali, che la tengono sotto la loro protezione.

Tante giovani donne dell’Est vengono avviate alla prostituzione, spesso anche inconsapevolmente, e si ritrovano, poi, imbrigliate inesorabilmente in situazioni dalle quali, pur volendo, non riescono più a venir fuori. Questo è il messaggio urgente e doloroso, che l’autore vuole trasmettere, rammaricandosi per l’impotenza e le difficoltà che anche un uomo generoso e innamorato non riuscirà a superare.

Pur avendo già sentito, o già letto di tante vicende simili, il racconto I ritratti di Idria suscita ugualmente nel lettore tanta pietà e simultaneamente tanta rabbia, soprattutto perché narra dei talenti di questa donna, e non solo della sua bellezza, che sono sommersi dalla violenza. La grazia dei lineamenti di Idria e la sua naturale predisposizione a mettersi in posa, che ispirano Michele, ce la fanno vedere in tutta la sua dimensione umana più profonda, come se una parte di lei, repressa e lasciata nei più reconditi spazi della sua memoria, volesse mostrarsi solo all’artista.

Questi, quando la incontra per la prima volta, è come spento e, come un affamato, è alla ricerca disperata di una nuova ispirazione, per poter superare la crisi opprimente che da tempo lo tormenta. Idria, con la passione che suscita in lui, riesce a scuoterlo e lo trascina a ritrovare il piacere di dipingere ritratti, pur se da tempo ha superato la figura nella sua pittura.

Il racconto I ritratti di Idria ci rivela i pensieri contrastanti dell’artista, che potrebbero essere anche quelli di Carlo Improta – pittore, scrittore e poeta –; esso ci trasmette con le sue opere, con i colori e con le parole la grande sensibilità che lo contraddistingue.

In queste pagine traspare tutto il tormento del pittore, che è confuso e stanco; vengono descritti i suoi sentimenti forti di rabbia contro le vicende che affliggono il mondo e che ha espresso nella sue opere fino a quel momento, come tanti altri artisti suoi contemporanei, rappresentando il brutto che lo circonda anziché il bello, di cui invece è assetata la sua anima. Ansia e affanno dominano il suo stato d’animo, che trasfonde nei dipinti con esplosioni di macchie e striature nevrotiche e veloci capaci di trasmetterlo altrettanto opprimente, senza peraltro da tempo trovare più consenso, in coloro che li guardano.

Tormentare la tela, alla ricerca continua di nuovi e furenti fremiti che sappiano accendere emozioni violente, comunicando spasimi e rivoluzionarie esplosioni di rabbia, sembra non interessi più eventuali suoi estimatori e acquirenti, ma ancor meno interessa Michele.

Egli, nel momento in cui lo incontriamo nel racconto, ha bisogno di nuove delicate sinfonie, ha bisogno di armonia e di sguardi, colti nei momenti di assoluta astrazione dalle vicende orribili, di cui, solo, parlano i media. Anche la leggerezza degli episodi scherzosi che Michele racconta a Idria per divertirla, distraendola dalla dolorosa esperienza della strada e dei suoi aguzzini tiranni, rivelano il bisogno, che tutti abbiamo, di sorridere ogni giorno, almeno un po’, per digerire le notizie sempre più tremende delle tristi vicende che ci accadono intorno.

Dipingendo Idria, Michele supera la sua angoscia e riesce a dissipare, anche se solo per pochi momenti, il tormento della ragazza, usando colori e toni più accettabili, per quanti ammirano le sue opere, che si allontanano, almeno un po’, dal significato più profondo del tema trattato e mostrano il suo rasserenamento.

Sono toni e colori, luci e contrasti, con cui l’artista, autore del racconto, sapientemente ci cattura, portandoci a conoscerne l’epilogo e quanto insopportabile potrà esserne la conclusione, che, pur se abbastanza scontata nella sua prevedibile drammaticità, lo scrittore risolve sapientemente. Piace al lettore, soprattutto, fruire di quelle immagini di donna, che le parole fluenti e i dialoghi semplici e chiari tra il pittore e la sua modella, fanno scorrere nella sua mente.

Il racconto si fa leggere agevolmente, con il piacere di riconoscere, alla fine, che il successo della mostra dei ritratti di Idria dipende non solo dalla testimonianza della sua bellezza, interiore ed esteriore, che ha lasciato il segno eloquente e indelebile nelle opere di Michele; ma anche perché si apriranno le porte della medesima Galleria a dei preziosi ritratti, conservati dalla vedova di un pittore ebreo, testimone di altre tremende sofferenze e soprusi, il quale ha colto e immortalato la bellezza figurativa estetica, pur nel contesto di una realtà disumana tanto miserabile.

L’autore afferma che «solo dove vi è vera sofferenza vi è vera arte» (p. 71), ma è pur vero che la Bellezza che salverà il mondo non può essere solo una questione di gusto, ma una Bellezza Estetica e anche Morale, da cui l’artista e l’uomo, in genere, non può sempre e per sempre prescindere, se desidera continuare a sentirsi vivo.

 

QUALCHE PAGINA


*  *  *

Michele Terenzio

Per un pittore perdere l’ispirazione è come perdere la vista.

Senza ispirazione l’artista brancola nel buio più assoluto e ciò che riesce a realizzare senza di essa non è arte, ma puro oggetto di commercio. L’aspetto più triste di questa faccenda è che i critici d’arte e i commercianti che contano riescono a intuire quando il pittore si trova in questo stato. Così, intorno all’artista che ha perso la sua ispirazione e che non crede egli stesso in ciò che crea, si forma un vuoto, difficile da colmare, specie se cominciano a passare anni di inutili lavori. Ciò è quanto stava succedendo a Michele.

Michele Terenzio era un valido pittore e artista, ma erano quasi tre anni che le sue tele non le comprava più nessuno, neanche galleristi né commercianti di rilievo.

In quegli ultimi giorni, per vivere, Michele aveva iniziato a rivolgersi a quella schiera di grossisti che comprano di tutto e vendono per una miseria, solo per commercio, esponendo le tele lungo i marciapiedi di qualsiasi città italiana. La sorpresa per Michele fu grande quando, rivoltosi a simili commercianti che possedevano capannoni enormi pieni di quadri, si sentì dire da costoro che le sue opere non erano commerciali e che realizzava un genere di pittura non adatta al mercato. Se avesse portato un figurativo, anche banale e grossolano, forse lo avrebbero preso in considerazione.

Una sera, mentre ritornava a casa si sentì perso e quasi sconfitto, dopo essere stato per l’ennesima volta alla Galleria di Mario, un suo buon amico che gli teneva esposto qualche dipinto senza pretendere nulla da lui, in quanto sapeva in che situazione economica si trovasse. Certo, per un artista che a trentacinque anni riesce appena a mangiare con un filo di rendita proveniente dal fitto di un piccolo negozietto ereditato dal padre, non è un gran successo. Eppure, fino a sette o otto anni prima tutto prometteva a suo favore.

Michele era ben visto dai Critici d’arte che contano e dai commercianti, che si contendevano le sue opere, ed era additato da tutti come un artista di sicuro successo. Poi, improvvisamente, tutto si era fermato; con la crisi economica un bene voluttuario come il quadro non rendeva più e per di più era sparita anche l’ispirazione! Ogni tre o quattro giorni si recava da Mario per vedere se si era venduta qualche sua opera, come se questi, in tal caso, non lo avesse subito chiamato. La verità, però, era che lui andava da Mario per rincuorarsi un po’, perché questi sapeva come prenderlo e Michele ne aveva bisogno, visto che se ne stava solo, per settimane intere, senza parlare neanche con un cane morto, chiuso nel suo piccolo studio-abitazione. Infatti, aveva dovuto lasciare la sua casa, perché non poteva permettersi il lusso di avere due appartamenti in fitto. Il piccolo studio-abitazione si trovava nella periferia industriale di Napoli, una zona degradata, dove non c’è un ambiente ben definito, ma si mostra mutevole nell’arco della stessa giornata e della medesima notte.

Michele possedeva una grande fantasia. Fin da bambino se l’era portata dietro senza alterarla nelle varie fasi di cambiamento sino all’età matura; per certi versi, era stata la sua ancora di salvezza, per altri, il suo limite nel recepire in pieno l’esistenza. Si potrebbe quindi pensare che, essendo un grande fantasioso, fosse un artista e anche un artista fortunato, ma non era così. Non era così perché, prima di tutto, molti hanno gran fantasia, ma non per questo tutti sono grandi artisti. L’arte è frutto di ispirazione ed è questa che rincorre l’artista per fargli creare grandi opere o grandi pensieri. Michele aveva perso l’ispirazione con il trascorrere degli anni; non interessa tanto conoscere come l’aveva persa, quanto piuttosto dove e come l’ha ritrovata, poiché, seguendolo nelle sue vicissitudini, si rifletterà insieme a lui, sul grande bisogno che tutti hanno di credere nel futuro e di essere ispirati da esso.

In questi giorni d’inizio millennio avere dei punti fermi verso cui indirizzare le proprie aspirazioni sembra impresa impossibile. L’unico caposaldo verso cui la maggioranza delle persone sembra orientarsi sono i soldi, considerati come la sola cosa che può soddisfare le aspirazioni e i reali bisogni di ognuno. «Ma poi», ripeteva Michele tra sé e sé, «non è forse vero? Con i soldi ti puoi comprare grandi spazi pubblicitari sulle migliori riviste d’arte o sui più seguiti canali televisivi e imporre il tuo prodotto». Pensava così perché ormai considerava i suoi quadri un prodotto, alla stregua di un vecchio e consumato imprenditore che opera nel campo dell’arte.

Mentre studiava come migliorare il campo d’azione per portare il suo prodotto all’attenzione di un sempre maggior numero di collezionisti, arrivò a casa; si erano fatte le venti, ed era ormai buio. Mangiò la pizza, comprata strada facendo, accese la tivù e, senza guardarla, si mise ad osservare il dipinto, ancora non completato, che aveva sul cavalletto. Vi era in esso un’esplosione di macchie con striature nevrotiche e veloci che andavano da parte a parte della tela. Era stato dipinto con ansia e affanno, sensazioni che trasmetteva appieno a chi lo avrebbe osservato attentamente. Riusciva a comunicare solo quest’ansia opprimente, e la gente, per lo più i giovani, quelli nati dopo il finire degli anni sessanta del XX secolo, rifiutava categoricamente questa tensione, quest’affanno, quasi da crisi asmatica, suscitata dalle opere di artisti degli anni sessanta e settanta. La gente non voleva più vedere e condividere questo tipo di pittura, figuriamoci, poi, acquistarla ed esporla in casa. Lui capiva queste cose, ma non riusciva a trovare una via che lo portasse verso un nuovo stile personale, in cui gli altri si ritrovassero senza avvertire questo malessere, cercando, poi, solo di liberarsene. Aveva paura di cambiare, questa era la verità.

Si alzò e andò a guardare dalla finestra. In strada, di fronte a casa sua, accostate al lampione, da un po’ di tempo, la sera, vedeva sostare delle prostitute. Tutte ragazze, belle e di nazionalità diverse. Erano slave, ucraine, pakistane o sudamericane. A Michele non interessavano, né si era posto il problema della loro presenza in quei pressi. Guardava, assorto nei suoi pensieri, quasi non metteva a fuoco l’immagine di quelle povere sventurate. Ad un tratto si fermò un’automobile, scesero degli uomini, alcune ragazze cominciarono a scappare, qualcuna fu afferrata e picchiata. Michele osservava distratto e quasi non coglieva l’accaduto nella sua realtà, poi si girò verso il suo dipinto come se ciò che stava accadendo lì, fuori dalla sua finestra, non lo interessasse minimamente.

Il campanello della porta suonò due o tre volte insistentemente e pochi secondi dopo batterono con tocchi veloci direttamente sul legno della porta. Questo tipo di bussata lo svegliò dal suo distacco. Poi udì una voce:

— Per favore, mi apra! La prego, mi apra un momento.

Una voce di giovane donna, straniera sicuramente, pensò Michele.

Aprì la porta e una ragazza si buttò letteralmente dentro, chiudendola essa stessa e facendo attenzione a non sbattere, per non far rumore.

Rivolgendosi a Michele, disse:

— La prego, non parli. Quelli lì fuori mi ammazzano.

Nella calma di chi non ha ancora compreso, Michele disse:

— Ma di che stai parlando?

La ragazza fece segno di tacere col dito sulle labbra:

— Sssst!

In quello stesso istante si sentì correre su e giù per le scale, al di là della porta, poi si udì qualche frase non chiara, infine il silenzio. La ragazza andò a guardare dalla finestra, facendo attenzione a non farsi notare, in quell’istante si sentì un’auto partire sgommando. In quel mentre si girò verso Michele e disse:

— Sono andati via. La ringrazio per avermi aperto la porta, quelli mi avrebbero picchiata a sangue.

— Chi sono? — domandò Michele.

— Sono ladri, teppisti, ogni tanto vengono, sfregiano qualche ragazza e si fanno consegnare quello che abbiamo incassato nella serata.

— Come, non avete un protettore?

— Certo, ma non sta sempre a sorvegliarci, e questi ragazzi ne approfittano nei momenti in cui non è presente, per scipparci i guadagni. Poi sono botte per noi, quando i padroni ci trovano la sera senza denaro.

— Insomma, dalla padella alla brace!

Michele pronunciò quest’ultima frase come se stesse parlando solo con se stesso, senza interessarsi minimamente a quello che poteva dire o pensare la povera sventurata. Si portò verso la finestra per guardare giù, ma non c’era più nessuno sotto il lampione di fronte.

La ragazza avviandosi verso la porta lo ringraziò. Stava per aprirla quando Michele le domandò:

— Si sono presi i tuoi soldi?

— No… e poi non ho incassato ancora niente, stasera siamo arrivate più tardi, io e le altre ragazze. Tu fai il pittore?

Nella penombra della stanza, dov’era accesa solo la luce dell’angolo cottura, Michele finalmente cercò gli occhi della ragazza. Lei, sfrontata, sostenne fino in fondo il suo sguardo. Per un attimo, Michele si domandò cosa abbiano in comune gli artisti e le prostitute, poi lasciò cadere questo pensiero e ritornò a guardare verso il lampione della strada, senza risponderle.

Lei, abituata a tollerare ogni tipo d’atteggiamento, si girò andando verso la porta, la aprì, ringraziò di nuovo e, senza aspettare la risposta, che non ci fu, andò via.

 

Argomenti:
Fonte: Editrice Domenicana Italiana 2018
fonte: Pensare i/n Libri n. 147 | Biblioteca
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